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Il Parto dell’anima… vi scrivo una piccola storia

Da pag 129 a pagina 131 di Da un castello all’altro (d’un chateau l’autre, 1957), di Céline, la storia di una cagna; proviene dalle glaciali contrade della Danimarca dove era abituata a lunghe fughe nelle foreste. Quando Céline ritorna in Francia, la porta con sè. Fine delle fughe. Poi, un giorno, il cancro: “Non volevo farle una puntura… nemmeno darle un po’ di morfina.. avrebbe potuto avere paura della siringa… non le avevo mai fatto paura.. è rimasta in fin di vita almeno quindici giorni..oh, non si lamentava, ma io vedevo.. non aveva più forze.. dormiva accanto al mio letto.. a un certo punto, un mattino, ha voluto uscire di casa.. volevo stenderla sulla paglia.. non ha voluto… voleva stare da un’altra parte.. nel posto più freddo della casa, sui sassi… si è allungata dolcemente… ha cominciato a rantolare …era la fine .. me l’avevano detto, io non ci credevo… ma era vero, si era distesa in direzione del ricordo, da dove era venuta, dal nord, dalla Danimarca, il muso a Nord rivolto a Nord… una cagna estremamente fedele ai boschi dove fuggiva. Korsor, lassù.. fedele anche alla vita atroce.. i boschi di Meudon per lei non significano niente.. è morta dopo due, tre rantoli.. oh, molto discretamente… senza nessun lamento.. con una postura davvero molto bella, slanciata in fuga … ma su un fianco, stremata, finita.. il naso verso le sue foreste in fuga, lassù da dove veniva, dove aveva sofferto … Dio sa quanto! Oh, ne ho viste di agonie…qui, là… dappertutto.. ma mai nessuna così bella, discreta… fedele.. quello che danneggia l’agonia degli uomini è il tralalà… l’uomo, malgrado tutto, è sempre su un palcoscenico.. il più semplice”.

Milan Kundera, Céline, la cagna e la commedia umana, “La Repubblica”, 2 Gennaio 2008


Liberta’

 Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà! –
  Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
  – A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. – A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! –
  E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! – Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! –
  Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. – Perché? perché mi ammazzate? – Anche tu! al diavolo! – Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. – Abbasso i cappelli! Viva la libertà! – Te’! tu pure! – Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. – Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! – La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e rimpieva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. – Paolo! Paolo! – Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.
  Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: – Neddu! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! –
  Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! – Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! – Te’! Te’! – Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
  La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. – Viva la libertà! – E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. – I campieri dopo! – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: – Mamà! mamà! – Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
  E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
  Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. – Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! – Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
  E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. – Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! – Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! – Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! – E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? – Ladro tu e ladro io -. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! – Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
  Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
  Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
  Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo – ahi! – ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: – Sta tranquilla che non ne esce più -. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.
  Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia – ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. – Voi come vi chiamate? – E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: – Sul mio onore e sulla mia coscienza!…
  Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!… –

Il significato del ritratto di Dorian Gray??

Ormai e’ arrivata la stagione delle passeggiate nelle librerie, nei centri commerciali addobbati, nei freddi locali, per non dire del cinema!! E penso che un’occhiata al Dorian Gray di Oscar Wilde fosse doverosa, almeno per me e Gigi. Beh, avevo paura che un film fatto su un romanzo diventato un classico della letteratura inglese potesse svilire quest’opera eccellente. Però non mi è dispiaciuto questo film. Ed una frase mi ha colpito che nel libro non avevo colto: "Il piacere non dà la felicità"… E non so perche’ ma ogni volta che c’e’ qualcosa che mi cattura l’attenzione è perche’ la immischio nella mia vita privata e provo una sorta di senso di immedesimazione nelle situazioni. Separare il piacere dalla felicità, sembrerebbe assurdo. In realtà forse non tutti i folosofi hanno separato questo binomio, però io vivo tutti i giorni la situazione di aggrapparmi a piaceri che mi portano a mali, a cose cattive, a volte pure alla disperazione. Forse in questa frase si potrebbe tradurre il significato del ritratto di Dorian Gray? Lui era un bravo ragazzo la cui bellezza aveva un potere di forte effetto alle persone che gli stavano intorno, poi un servo del diavolo, Henry (che rappresenta le tentazioni del mondo) lo trasforma in quello che lui (Henry)  non aveva avuto il coraggio di essere e lo plagia. Diventa così tanto geloso del suo dipinto (il quale resterà eternamente bello mentre lui invecchia) che stringerà un patto col diavolo per questa sorta di scambio. La storia poi la conosciamo tutti. Lui arriverà alla fine squarciare il quadro, cioè se stesso, ammazzerà con il coltello con il quale aveva ucciso anche Basil (che aveva dipinto il quadro) quasi come se fosse stata sua la colpa. Con il suo gesto finale ucciderà la sua anima marcia, e quindi se stesso (perche’ l’anima si ricongiunge al corpo e viceversa). In questo caso tanti piaceri hanno portato comunque ad una morte, ed addirittura ha trasformato spesso l’amore in morte. Quindi la strada della felicità è il piacere? il piacere e’ un qualcosa di materiale? il piacere non e’ felicità?…. cosa cerchiamo quando non riusciamo a staccarci dalle persone che amiamo e ci fanno soffrire? probabilmente sono persone che ci danno fortissimi piaceri, ma anche dispiaceri. Puo’ essere quindi  un esempio un amore che porta alla disperazione?  Quando siamo consapevoli che una persona non ci porta alla felicità siamo allora coscienti che essa ci dà dei forti piaceri che altrimenti non ci impedirebbero di tagliare sin dall’inizio da questa persona! e pure quando restiamo delusi dopo tanto tempo, in noi resterà sempre qualche piacere dato un po’ dalle abitudini, un po’ dai ricordi, da vecchie emozioni. E forse chi ricerca sempre quelle emozioni e’ destinato a tradire sempre la persona con cui sta, perche’ e’ alla continua ricerca del temporaneo, di ciò che e’ passeggero e non eterno. Forse per amare la vita, bisogna un po’odiare ciò che si ama in questa terra, o quello che noi tendiamo ad amare (ved. il culto del bello), ed alla fine anche Dorian Gray si era scocciato e stancato. A Napoli direbbero "Bell’ e faccia e brutt’ e’ cor’!

Comunque, riguardo al romanzo di Oscar Wilde, egli stesso avrà occasione di dire, in una lettera del 1894 : “Basil è ciò che penso di essere. Henry è ciò che il mondo pensa di me. Dorian è ciò che io vorrei essere”. Ed è proprio in queste poche righe che si cela il quanto mai misterioso messaggio di Wilde, secondo cui, in definitiva, il solo personaggio del romanzo non è altro che lui stesso.

 


La mia geografia sacrale

Io penso che ci sono alcuni posti per noi dove è avvenuto qualcosa di importante, di significativo,… magari dove ci siamo innamorati; ed è per questo che diventano sacri. Si dice che l’amore produce una geografia sacrale del mondo. Così quel posto, quella casa, quel particolare punto di vista sul mare o sui monti, quel albero,… diventano i simboli sacri per esempio di un amore perduto. Diventano dei templi che hanno ospitato un istante di eternità d’amore o un presagio. E così come si sacralizza lo spazio, si sacralizza il tempo. Tutte le volte che una persona si sente innamorata produce una sorta di sacralità, spazio fatto da posti speciali e tempo fatto di giorni significativi. Non so come spiegarlo, si parte da quando c’era la biondina nella classe affianco alla tua alle medie, quando si andava in palestra perché c’era solo lei e la stessa quando diventava vuota dopo l’ora di fisica perdeva di ogni senso perché non c’era più lei. Ancora oggi quando si va a votare in quella scuola ripenso al valore che ha avuto per me quella classe e quei corridoi oramai sacrali. Poi c’è per esempio l’amore adolescenziale delle superiori, quando si tornava dopo scuola alla stazione e si prendeva il treno che passava 20 minuti più tardi perchè conoscevi a menadito gli orari di una certa persona che tu aspettavi solo per guardarla (e magari parlaci pure…). Ecco, quella insulsa stazione di Maddaloni Inferiore era diventato un posto sacro insieme agli altri posti delle superiori, ed ora fa parte della mia geografia sacrale. In realtà non ci sono solo posti come il panorama dal balcone di casa tua dove sei cresciuto, il mare delle vacanze, le cene in comitiva, i profumi delle serate estive, ecc… ma ci sono posti impregnati semplicemente di un periodo, un periodo dove per te esisteva solo una cosa che aveva solo senso. Posti che non hanno nulla a che vedere con una persona, ma che ti ricordano una persona, e forse quella persona lì non c’è mai stata neppure…  Ci sono molte persone che a distanza di tempo,  non riescono ad incontrare certe date senza essere turbati. Io sicuramente non potrò tornare in certi luoghi senza essere invaso dalla nostalgia. Ma in fondo non è una cosa brutta, è solo un’osservazione. A me quasi sembra che questo spazio e questo tempo siano immortali, nel senso che, anche se li ho dimenticati, sopravvivono nell’incoscio. Alla fine si sa che il mondo è quello che noi abbiamo in testa, e forse anche l’amore è un qualcosa che sta dentro di noi (ed a volte solo in noi), e molti posti del mio mondo non sono fatti solo di momenti vissuti, ma anche di presagi (se così si può dire). Una piazza a Pompei che rievoca una strana serata, l’autostrada che mi riportava da Lecce a casa, le passeggiate a Salerno quando ne avevo voglia, o addirittura il vecchio telefonino che disperatamente abbiamo dovuto cambiare perchè impregnato di ricordi passati o di vecchi tormenti (anche il luoghi dove generalmente telefonavi entrano a far parte della tua geografia). Ancora oggi non riesco ad essere del tutto indifferente quando passo davanti  ad una banalissima uscita stradale, solo perchè c’è il nome di una città. Il punto di vista dell’amore rende i nostri posti speciali, e quando ci  sentiamo  innamorati tutto ciò viene  esaltato ancora di più. Ci sono state nuove esperienze che hanno provato a cancellare posti e momenti, a modificare la mia geografia sacrale e creare altro spazio ed altro tempo. Eppure noi tutti sperimentiamo che indifferenza non significa dimenticare.

Leggendo Iris Murdoch

Da un discorso fatto da un Iris Murdoch anziana, prima che la colpisse la malattia, sull’importanza dell’Istruzione: Non è l’istruzione che ci rende felici, nè la libertà. Non diventiamo felici perchè siamo liberi, se lo siamo, o perchè siamo stati istruiti, se lo siamo stati, ma perchè l’istruzione può essere il mezzo con il quale capiamo che siamo felici. Apre i nostri occhi, le nostre orecchie, ci dice dove si celano le delize, ci convince che c’ una sola libertà veramente importante: quella della mente. Ci dà la sicurezza e la fiducia di percorrere il sentiero che la mente istruita ci offre… 
Poi, alla fine di questo discorso, in presenza del marito anziano, comincia a cantare davanti una folla una canzone: "Gli parlerò del mio amore, dell’adorazione della mia anima, e penso che mi sentirà e non mi manderà via. E’ questo che dà alla mia anima tutta la sua gioisa esaltazione e sento le dolci allodole cantare nell’aria chiara del mattino…"
 
 C’è qualcosa  di ambiguo del descrivere i sentimenti delle persone. Pur essendo accurati, il linguaggio non basta, anzi, generà falsità. Quando affermiamo la verità le parole sono sufficienti. Quasi tutto, tranne cose come:" mi passi la salsa?". E’ una specie di bugia, il che vale anche pper ciò che ho detto. Quindi… mi passi la salsa??
 
L’amore insoddisfatto si preoccupa di capire, mentre l’amore vero non ha queste necessità. Una volta riconosciuto ha lo stampo dell’indubitabilità.
 
…firmato Iris Murdoch 
(Non tutti conoscono il potere carismatico di una delle più grandi scrittrici inglesi del novecento)

disse Aldo Moro…

Perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente.

blaise pascal

"La verità è oggi tanta offuscata
e la menzogna così ben stabilita, che,
se non si ama così saldamente la verità
non si è in grado di riconoscerla"
 
(Blaise Pascal)

Piaggeria

Tra 2 settimane, dopo tanti anni, finalmente ci sarà qualcuno che deciderà per il mio destino… certo, mi verrebbe più da dire che ci saranno delle persone che devono decidere per talune persone, perchè i figli di qualcuno non possono fare la fine la fine dei figli di nessuno, è da sempre che il mondo girà così, e girerà sempre così. Il resto poi poco importa se ci sono persone che hanno dato. Molti usano semplicemente un termine: Piaggeria.
Proprio negli anni antecedenti la Grande Guerra venne analizzato il declino dell’esercito britannico. Gli spaventosi errori di quel folle conflitto non furono imputabili ai soldati "leoni guidati da asini", ma apppunto agli asini, cioè agli ufficiali, la cui etica era in declino  da decenni. Alla fine del diciannovesimo secolo, in tempi di relativa pace, il metodo di salire di grado nell’impero britannico non era l’abilità militare, ma appunto la piaggeria. I generali in gamba che criticavano la politica estera britannica non venivano promossi, mentre quelli che la lodavano, arrivavano in alto pur non sapendo fare il loro mestiere. Inoltre, un generale incompetente di solito promuove subordinati che non gli facciano fare brutta figura, in altre parole preferisce ufficiali ancora più incompetenti di lui, e questi si comportano in modo analogo con i loro sottoposti. Così, l’incompetenza aumentò in tutto l’esercito fino ai massimi livelli. L’inettitudine non fu manifesta finchè gli ufficiali non dovettero prendere all’improvviso serie decisioni militari durante il conflitto con la Germania. Ma ormai, per i poveri soldati in trincea, era troppo tardi.

il puzzle

Comprendere il mondo è un po’ come ricomporre un puzzle. c’è una enorme diferenza tra il puzzle mentale e quello di legno. in quello di legno le tessere si incastrano in un unico modo, mentre in quello mentale c’è una enorme flessibilità, come se i pezzi fossero di gelatina. Così, se non combaciano, proviamo a  piegarli e a forzarli in maniera che si incastrino… Ma rimodellare i pezzi incompatibili a suon di martellate causa grossi problemi.
Anche quando crediamo di aver finalmente  messo i pezzi, il puzzle in realtà non è finito, perchè con tutto ciò che lo circonda, è percorso da un denso e pulsante flusso elettric; le emozioni. Amori, passioni, odio, paure,…
Sembra strano, ma ogni volta che posiamo lo sguardo su di un oggetto, non ce ne accorgiamo, ma la prima cosa che pensiamo è  se sia il caso di scappare o no, ed in maniera celere ed incoscia non ce ne rendiamo conto, scappiamo spesso prima che la ragione abbia il sopravvvento su questo istinto veloce…. Tutto ciò che guardiamo suscita perciò sensazioni, ma spesso non ce ne accorgiamo.
 
una interpretazione (forse sbagliata) della moderna legge di murphy

Kahlil Gibran

Credere è una bella cosa

ma mettere in atto le cose in cui si crede è una prova di forza.
Sono molti coloro che parlano come il fragore del mare,
ma la loro vita è poco profonda e stagnante come una putrida palude.
Sono molti coloro che levano il capo al di sopra delle cime delle montagne,
ma il loro spirito rimane addormentato nell’oscurità delle caverne.